Due interviste a Paolo Patanè

18/02/2010 - Redazione arcigay
Intervista di Mario Cirrito - Da Queerblog.it

Arcigay, da oggi, apre una nuova pagina della sua storia, concluso il Congresso Nazionale di Perugia. Paolo Patanè traghetterà l’associazione fino al prossimo congresso insieme al nuovo segretario e alle nuove dirigenze che rappresenteranno Arcigay nel territorio. Probabilmente, a molti che non conoscono l’impegno militante, o chiosano su Arcigay per pura spura personale, Arcigay rappresenta il potere litigioso, la rappresentazione del nulla. Con i suoi peccati e le sue reali battaglie, l’organizzazione nata da una costola di Arci, è, nonostante tutti i limiti, una realtà che incide sul tessuto sociale e sulle battaglie passate e future. Senza di essa, senza i militanti di area Arcigay e delle altre associazioni, oggi potremmo biasimare meno il lavoro altrui, impegnati come saremmo, a scansare i tanti pericoli e le tante acrimonie che la realtà ci butterebbe addosso. Se le organizzazioni LGBT saranno forti col nostro appoggio, le vittorie saranno sicure. Altrimenti il lamento diventa un esercizio inutile e anche fastidioso.

Paolo, gli auguri miei personali e quelli di Queerblog, per questa tuo nuovo, importante, incarico. Da oggi, quale dovrà essere il primo impegno di Arcigay?
Grazie a te e a Queerblog per gli auguri che servono sempre. Il primo impegno sicuramente è un impegno morale verso questa associazione che ha vissuto un congresso molto complesso, ed è inutile nasconderselo. E che adesso ha bisogno di capire che la fase del confronto tra due mozioni diverse è un fatto inedito per la nostra storia. Questo ha creato un grande disorientamento in una associazione impreparata a questo tipo di confronti congressuali. Il primo impegno è dimostrare a noi stessi che confrontarsi tra due mozioni non significa spaccare l’associazione. Significa sottoporla ad un processo a un processo di crescita democratica. Dopodiché, chi amministra l’associazione di dialogo deve farlo per tutta l’associazione, non per una parte.

Un impegno e un intento importante visto come, a volte, questo Congresso non è riuscito a trovare convergenze comuni. Ma poi?
Quello detto prima è il primo impegno, importante. Sul piano politico, ovviamente, i nodi sono tantissimi; ci sono delle urgenze: attendiamo questa sentenza della Corte Costituzionale del 23 marzo (sulle istanze presentate da alcune coppie di fatto ndr.) e rispetto a questo bisogna immediatamente trovare un tavolo di incontro con le altre associazioni; immaginare delle iniziative e preparare anche la reazione del movimento a quella che sarà la sentenza della Corte. Qualunque essa sia; molto serenamente, consapevoli del fatto che, quando anche sarebbe negativa, non sarà la pietra tombale di nulla.

Con il gruppo della mozione minoritaria riuscirete a ricomporre un dialogo che serve a voi, a loro, a coloro che si sono allontanati come militanza dai movimenti e dalle battaglie per i diritti civili?
Con la cosiddetta “mozione minoritaria”, certamente, il dialogo è imprescindibile. Lo dicevo prima: noi dobbiamo ricostruire l’immagine di questa associazione come una entità unica in cui c’è una diversità di posizioni. Avere posizioni diverse non significa necessariamente che l’associazione sia necessariamente spaccata. Si deve superare quest’idea. È evidente che c’è un percorso da fare di dialogo, sicuramente interno, ma anche esterno. Questi conflitti sono stati, purtroppo, conflitti che hanno attraversato la dirigenza dell’associazione. Adesso noi dobbiamo, in qualche modo, rasserenare tutti, ricoinvolgere le socie e i soci e trasmettere l’idea che in Arcigay si sta per una grande passione.

Con le altre forme di associazionismo, con le altre sigle LGBT, riuscirete a trovare punti di incontro per scopi e battaglie comuni?
Questo come ben sai, visto che hai seguito in tutte le sue forme questo congresso, è uno dei nostri scopi principali. Per due buone ragioni, perché, noi abbiamo avuto occasione di dirlo in diverse occasioni, il fatto di non essere soli, di non essere la sola associazione l’interno del movimento è assolutamente un vantaggio non un problema. Io credo che Arcigay debba relazionarsi con le altre associazioni partendo da un principio: non dobbiamo fare tutti la stessa cosa; quello che conta è il comune obiettivo; poi ognuno ha la sua storia, i suoi percorsi, i suoi approcci, i suoi metodi, ed è persino una fortuna che sia così! Che tutti facciano la stessa cosa non è opportuno e non è utile, non è vantaggioso. È molto più interessante che i vada verso un’unica finalità, con modalità differenti.

Manderete avanti il progetto di confederazione?
Sicuramente sì. Sono anche dell’idea che lo si debba allargare e che il movimento debba cominciare a condividere dei temi specifici su cui imparare a coordinarsi, perché è questo che facilita la determinazione di un metodo, di una condivisione, di un criterio e che permette poi, concretamente, di proporsi come entità più unitaria possibile. Professare però l’unità in maniera astratta senza cimentarsi con delle situazioni e circostanze concrete, significa fare un discorso che rimane fine a se stesso. Incontrarsi un po’ più spesso, non basta una sola volta all’anno, perché quello produce poi una pletora di discorsi improduttivi. Bisogna cominciare a individuare dei gruppi di lavoro comuni. Vedremo quale sarà la disponibilità degli altri. Arcigay si vuole proporre come promotrice di questa unità.

Si può studiare una struttura dove le varie realtà dell’associazione portino avanti linguaggi e rivendicazioni comuni; che sia coesa nel momento in cui si va a dialogare con i legislatori?
Io penso proprio di sì. Guarda, noi siamo insufficienti, singolarmente, al di là delle dimensioni dell’articolazione territoriale che Arcigay può avere; su certi temi, se non si trova una strategia coordinata, che sia sull’omofobia, che sia su tutta la piattaforma rivendicativa che attiene il matrimonio civile, la diversificazione degli istituti famigliari, sull’omogenitorialità; che sia anche sulla questione dell’imminente sentenza della Corte Costituzionale. Insomma, se non si trovano dei tavoli coordinati, noi continueremo ad andare avanti con una serie di buone o discrete iniziative scollegate, che ciascuno assume legittimamente, ma che alla fine non sono utili. La società, i nostri interlocutori politici, non ha la percezione dio una strategia coordinata.

In questo senso, quale strategia si potrà mettere in campo per dialogare con quella politica, di destra e di sinistra, che potrebbe dovrebbe darci risultati concreti in termini legislativi?
È inutile prendersi in giro. Questa è una fase difficile; c’è un male della politica italiana nel quale anche noi siamo scivolati: quello della trappola delle fasi elettorali. Il sistema dei partiti si rivolge ai cittadini normalmente quando, nelle fasi elettorali, ha bisogno di ricevere un voto. Quella è la fase meno indicata per dialogare con la politica. Con la politica si dialoga a 360 gradi in tutti gli altri momenti. L’azione politica non può essere fatta solo nelle fasi elettorali, sarebbe veramente troppo poco. Cominciamo a preoccuparci di costruire la nostra agenda politica, non andiamo a pensare all’agenda politica dei partiti. Sicuramente capiremo che l’agenda politica di una associazione comporta l’individuazione di azioni che sono diverse da quelle che possono portare avanti i partiti. I partiti è logico che medino; una associazione sui diritti, non può mediare, perché i diritti devono essere presentati con una patente di insindacabilità, di non negoziabilità. Cominciamo a crearci una nostra identità politica come associazione, a consolidarla. Questo determina la nostra agenda politica.

Ci vuole, mi sembra di capire, un nuovo incontro con la politica e con la società.
Perfetto. Arcigay ha bisogno di mostrarsi un po’ più palpabile nella società. Non lo si è solo con le manifestazioni; si diventa papabili quando la società ti vede e con delle campagne che ti riportino a comunicare con la società civile che, per esempio, riaffermino la nostra identità di famiglie. Ti vede quando tu cominci a creare dei luoghi che con la loro stessa esistenza, segnalano l’insufficienza della politica: centri antiviolenza, comunità, cooperative sociali. I luoghi fisici sono luoghi che testimoniano la presenza di una associazione nella società; la capacità di quella associazione di offrire dei servizi e l’insufficienza dello Stato rispetto a certi temi. È una base forte su cui dialogare. Poi, essere contro la dipendenza dai partiti non significa non avere relazioni con i partiti. I Partiti sono degli interlocutori come tutti ma noi non dobbiamo inseguirli, ci vengano a cercare loro. Dopodiché, non si media per carriere personali, non si media per soluzioni e interessi privati. L’Associazione lavora solo ed esclusivamente per i diritti delle persone LGBT, che siano di Arcigay o no.

Ci vuole, anche in questo, un rafforzamento dell’associazione nel territorio?
Certo. Necessitiamo di un rafforzamento e di una articolazione territoriale, che pure si è raddoppiata negli ultimi cinque anni. Però necessitiamo di riempire di senso politico e strategico questa articolazione territoriale. Noi, poi, abbiamo una articolazione di circoli affiliati, importante, che sono delle tribune eccezionali, sicuramente da rivalutare, perché in quei luoghi si intercetta una parte della popolazione LGBT vastissima che non è interessata ai temi politici. Dobbiamo invertire questo trend! La nostra presenza deve risolvere i problemi, affrontare quelli che esistono, dia accoglienza e assistenza; sia una dimostrazione concreta della capacità sociale di questa nostra organizzazione: di dare delle risposte, di farsi carico di temi che però, attenzione, l’associazione non può porsi come solutrice totale, ma che segnalino l’insufficienza, la disattenzione, l’indifferenza delle istituzioni rispetto a certe cose. Penso all’assistenza alle persone sieropositive, un problema che ha una
centralità assoluta.

Ai ragazzi che scappano o vengono buttati fuori di casa a causa della loro omosessualità; al bullismo dentro e fuori la scuola…
Questi sono temi che dobbiamo approfondire con tutti. C’è anche il problema delle transessuali con cui dobbiamo discutere e affrontare i loro problemi. A come fare in questo momento in cui nel paese c’è un’ondata di transfobia agghiacciante, terribile.

Tanti impegni, insomma, dentro e fuori Arcigay.
Questa associazione ha fatto i venticinque anni come associazione nazionale, anche questo è un aspetto su cui riflettere. Noi, effettivamente paghiamo, in modo reale, l’assenza di una comunità che c’è ma non si è consolidata. Abbiamo bisogno di fare un investimento su questo, e anche culturale. Una comunità si consolida quando si percepisce; che ha un passato. Troppa parte del mondo LGBT non ha la più pallida idea del suo passato; forse anche noi siamo stati carenti in questo. Trent’anni fa, due ragazzi, in Sicilia morirono, assassinati o suicidi, non si è mai saputo (il caso Giarre ndr.). Da questa violenza subìta è nato praticamente tutto. Allora, la rivoluzionarietà, non solo del rapporto omosessuale, della relazione affettiva omosessuale. Questa è una cosa su cui dobbiamo tornare a lavorare per restituire a questa comunità degli eroi in cui riconoscersi. Una comunità si costruisce anche così.

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Intervista di Laura Adduci - Da Gayin.tv

L'Arcigay ha un nuovo presidente: è Paolo Patanè. L’elezione è avvenuta al termine del XIII congresso nazionale che si è tenuto a Perugia nei giorni scorsi. Il congresso ha nominato anche i nuovi organi dirigenti. Patanè ha sostituito Aurelio Mancuso come presidente nazionale, mentre il bresciano Luca Trentini prende il posto di Riccardo Gottardi come segretario nazionale. Il congresso ha inoltre eletto il nuovo consiglio nazionale, composto da 73 persone, esponenti di tutti i 46 comitati territoriali e ha riconfermato l'udinese Alberto Baliello come presidente del Collegio Garanti. Il neo presidente dell’Arcigay, Paolo Patanè, si è dimostrato molto disponibile a rispondere alle nostre domande.

È stato eletto in qualità di nuovo presidente dell'Arcigay, quali sono i suoi propositi?
La prima urgenza è interna, ovvero ricomporre immediatamente un clima di serenità in Arcigay dopo una fase dialettica dai toni inusuali. Dopo il Congresso è urgente restituire la parola al Consiglio e cominciare a lavorare. L'agenda è fittissima: dal Pride di Napoli alla condivisione con Certi Diritti , Lenford e le altre associazioni di una strategia in attesa della sentenza della Corte Costituzionale del 23 marzo. Poi c'è la questione del censimento ISTAT che apre orizzonti di iniziativa politica nuovi e su cui anche Gay.it ha lanciato un appello che ha avuto riscontri importanti. Parlo di scadenze ravvicinate su cui il Congresso ha dato mandato ad agire sin da subito con l'approvazione di specifici Ordine del giorno. Poi evidentemente vi sono tutti gli altri obiettivi definiti dal Congresso e che richiedono l'insediamento del Consiglio e della Segreteria nazionale per tradursi in iniziative concrete.

Tra gli obiettivi, anche quello di sollecitare l'introduzione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, attraverso quali iniziative intendete farlo?
Intanto è bene sottolineare che il Congresso ha confermato che il matrimonio civile e la diversificazione degli istituti familiari sono obiettivi irrinuNciabili. Io credo che si debba rilanciare l'idea che siamo famiglie,e puntare a riportare questo dato nel dibattito che attraversa la società civile. Come farlo? Campagne mirate e condivise ad esempio,e comunque capaci di riconquistare simpatia e consenso tra la gente. Poi la strategia giudiziaria va approfondita,continuando a proporla, e facendone forse il binario privilegiato in una fase dagli sbocchi parlamentari chiusi. Attendiamo la sentenza del 23 marzo con la certezza che qualunque cosa affermi,anche in negativo,non sarà la parola definitiva sull’argomento.

Secondo lei, l'UE può favorire ed accelerare il processo di crescita culturale, politica e sociale nel nostro Paese?
In generale l'internazionalizzazione delle nostre battaglie è uno degli obiettivi nuovi che Arcigay si è data ,e riceverà una delega specifica all'interno della prossima Segreteria nazionale: dunque ci crediamo. E crediamo soprattutto in una strategia diversificata che coinvolga certo l'UE e le sue Istituzioni, ma anche i mass media europei, le associazioni, i movimenti. L'Italia è inserita in un contesto di civiltà giuridica, sociale e politica di cui non può sempre fare finta di non accorgersi. Stiamo studiando gli spazi che si aprono attraverso l'introduzione del Trattato di Lisbona nel nostro Ordinamento.

In questo ambito quanto pesano le dichiarazioni da parte dei rappresentanti della Chiesa? Il ritardo dell'Italia rispetto agli altri Paesi Europei è, secondo lei, da attribuire ad una cultura cattolica bigotta?
Sicuramente, anche se va spiegato. Io sono restio a ricondurre la questione all'interno di una contrapposizione tra credenti e non credenti che rischia di coinvolgere impropriamente persone e situazioni. In realtà l'arretramento complessivo del dibattito culturale e l'uso pubblico della religione a supporto di politiche identitarie è studiato a tavolino e risponde a logiche di mero potere. Intendo dire che è solo un pretesto che poco ha a che vedere con questioni strettamente culturali o spirituali: è uno strumento di conservazione di un sistema. La paura dell'altro è parte di questo stesso sistema, evidentemente, e fonda e sostanzia politiche securitarie che ritengo molto pericolose. È chiaro in tutto questo che la gerarchia vaticana ha fatto, fa e farà scelte orientate alla conservazione del suo potere inasprendo l'uso pubblico della religione per influenzare la politica, la società civile e la cultura. È uno dei grandi problemi di questo Paese,esattamente come lo è il ruolo politico della chiesa ortodossa nella Russia post sovietica.

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